Nonostante il filtro dello schermo di un pc, la luce negli occhi di Antonia Monopoli non può che abbagliare. Ancora più forti sono le sue parole. Ha scritto un libro che vale la pena di leggere: La forza di Antonia. Storia di una persona transgender. Parla della sua vita, degli ostacoli e di come è riuscita a superarli. Una storia che supera le barriere di genere, in cui ognuno di noi può identificarsi. Ora è responsabile dello sportello trans dell’associazione Ala Milano Onlus ed è una delle attiviste più influenti della comunità trans.

Innanzitutto, qual è la differenza tra omosessualità e transessualità? Spesso non si hanno le idee molto chiare.

Anche io in un periodo della mia vita sono andata alla ricerca di un gruppo di appartenenza credendo di essere gay. Ma ciò che sento io è diverso, perché io non cerco un gay ma un uomo eterosessuale a cui piacciono donne cisgender. Quando ho visto per la prima volta una trans ho capito di voler essere come lei, prima non sapevo di esistere. La differenza quindi sta nel percepirsi anche in relazione al genere opposto.

Quando hai realizzato per la prima volta la tua “diversità”?

Verso i sette anni. Giocavo con le bambole, mi piacevano i capelli lunghi. Per me i capelli sono un segno di femminilità. Io amo i miei, mi arrabbio ancora adesso quando la parrucchiera taglia troppo (ride).

A proposito di capelli lunghi, quali sono gli stereotipi della femminilità che non ti piacciono?

Minigonna, tacco a spillo, calze a rete. In alcuni contesti l’abito fa il monaco. La minigonna va bene per andare in discoteca, bisogna tenere sempre conto del luogo in cui andiamo. A me piacciono le cose particolari ed estrose ma sempre raffinate: amo molto Thierry Mugler e Jean-Paul Gaultier.

Che rapporto hai con la moda?

Quando ero un maschietto aspettavo la domenica per vedere “Non solo moda”, ero appassionata. Mi piace molto lo stile vintage, soprattutto anni ’50.

Secondo te le problematiche che incontrano le persone transessuali oggi sono le stesse che hai incontrato tu all’inizio del tuo percorso o sono cambiate? Pensi sia più facile oggi?

Per me le cose sono cambiate. Negli anni ’80 quando dissero a mia madre che ero un bambino diverso dagli altri, si allarmò moltissimo e si rivolse al medico di base. Lui le suggerì di portarmi al manicomio. Ero considerata una malata mentale curabile solo con il lavaggio del cervello e la lobotomia. A 18 anni a Trani incontrai il primo terapeuta che disse a mia madre che non ero malata e a dover essere aiutata in questo percorso fosse lei, non io. In quel momento vidi la luce. Dopo ho iniziato a fare le ricerche per diventare quella che sono oggi.

E arrivi a Milano.

Nel ’94 non c’era nulla, mancava un punto di riferimento per le persone trans che mi potesse consigliare cosa fare. Erano le altre ragazze, non un medico, a dirmi quale farmaco utilizzare per avere il seno e ottenere una fisionomia più femminile possibile. Nel 2002 trovai il primo centro diagnostico al Niguarda, anche se all’epoca era ancora piuttosto rudimentale: all’interno del centro sterilità c’era un medico ginecologo che seguiva la transizione creando un’équipe multidisciplinare. Così, nel 2009 ho deciso di creare il punto di riferimento che mancava, per dare alle persone come me quello che io non ho avuto. Quindi direi di sì, dagli anni ’80 i cambiamenti ci sono stati e io ho stessa ho contribuito a innovare la quotidianità delle persone trans.

Quale consiglio daresti alla vecchia te?

Io ho passato periodi un po’ bui. Alla vecchia me posso consigliare di avere più fiducia in se stessa, andare avanti a testa alta (quasi si commuove). Non avrei mai pensato di arrivare a 48 anni. Siccome ho lavorato 10 anni in strada, mi dicevano che le trans prostitute non vivono a lungo. Mi guardo indietro e mi dico che nonostante le difficoltà ho fatto tanta strada.

Chiara Barison
Fonte: Quote Rosa – Discorsi sul femminismo