Quando finalmente arrivai a destinazione, mi precipitai all’ospedale. Una volta entrata in stanza, mi avvicinai al capezzale. Gli accarezzai la mano, gli accarezzai la fronte.
– “Papà, io sono qua, sono tornata, per te“.

foto di Antonio Occhiuto

Mi accorsi come se da un occhio gli fosse scesa una lacrima. Venne una infermiera. Vedendo la scena mi disse:

– “anche se è in coma, stai per certa che lui ti sente“.
Alla sera, concordammo su chi dovesse rimanere. Io ero venuta da Milano apposta e quindi avrei voluto rimanere io. Mio padre sussultò, quasi come un leggero balzo. Esalò l’ultimo respiro.
Gli infermieri ci invitarono a recarci alla sala mortuaria perché poi avrebbero portato lì il corpo. Il gelo silente e sacro di quel posto mi spaccava. Il lenzuolo lo copriva solo per metà, le gambe non le aveva più perché gli erano state amputate anni prima. Tremavo nello scoprirgli il volto. Quel gesto avrebbe confermato a me stessa che mio padre era morto davvero. Lo fece mio cognato. Aveva gli occhi chiusi.
Lo rivestirono. Venne un auto per portarlo via. Vegliammo tutta la notte dopodiché fu portato in chiesa per i funerali. Affissero i manifesti. Mi ero portata un abito nero. Il corteo a un certo punto si fermò perché poi il feretro avrebbero continuato a portarlo da soli. Lo seguimmo in auto. Giunti nella camera mortuaria del cimitero, ci fecero vedere il corpo per l’ultima volta. Per tutte quelle ore non versai neanche una lacrima, quasi come se i miei sentimenti fossero congelati. Il giorno dopo, chiesi a mia madre di andare io per prima al luogo di sepoltura. Davanti alla tomba di mio padre, scoppiai in un pianto. Sfogai tutto il mio dolore. Un corpo spento, senza più vita che col tempo si sarebbe consumato fino a diventare cenere ma il calore che lo animò e che mi fece amare così tanto restò in me, nascosto, nei ricordi e nella fede che ad ogni morte c’è un inizio.
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