La responsabile dello sportello trans dell’associazione Ala, ruolo creato ad hoc per lei: «Nel ‘94 sono partita per Milano per iniziare un percorso di transizione, consapevole che mi sarei prostituita»

Antonia non teme di raccontarsi. Anzi, «ci sono ancora delle ferite aperte e parlarne per me è terapeutico». Antonia Monopoli è una donna transgender diventata simbolo della lotta per i diritti LGBT+. La sua storia parte da Bisceglie, in Puglia – dove nasce nel 1972 – e prosegue a Milano, dove vive dal ’94. Da anni è la responsabile dello sportello trans dell’associazione Ala (in via Boifava 6/A), ruolo creato ad hoc per lei.

Antonia Monopoli racconta a Mi Tomorrow la sua lotta per i diritti LGBT+
Questo traguardo è frutto di un lungo percorso passato anche attraverso la prostituzione. Dopo l’esibizione di Checco Zalone, che all’ultimo Festival di Sanremo ha proposto la rivisitazione di una favola con protagonista un trans sudamericano, si è acceso nuovamente il dibattito sugli stereotipi legati alla rappresentazione delle persone transgender.

Come ha vissuto quello sketch?
«A caldo ho avuto una reazione molto negativa: non mi sono piaciuti i suoi termini forti ed espliciti, che hanno infastidito anche molti della comunità trans. Poi ho riflettuto sul fatto che Zalone abbia voluto far emergere una realtà, che però non è riuscito a captare bene, perché lo ha fatto attraverso il solito stereotipo della trans prostituta. Per questo credo che il messaggio sulle discriminazioni non sia passato».

Quando ha cominciato a percepirsi come femmina?
«Intorno ai 7 anni. Mi sentivo una bambina e non pensavo che in famiglia la cosa potesse fare la differenza. In quegli anni viveva con noi un mio cugino, che fece notare ai miei genitori che assumevo atteggiamenti considerati poco maschili».

Come reagirono?
«Si allarmarono. Cercarono di chiedere aiuto per comprendere i miei comportamenti. Il medico di base suggerì di portarmi al manicomio. Dopo avermi sottoposto all’elettroencefalogramma, mi dissero che ero malato e che per “guarire” avrebbero dovuto farmi l’elettroshock o lobotomizzarmi. I miei genitori mi portarono da psicologi e psichiatri, con i quali facevo scena muta: mi sentivo messo in punizione, ma non ne capivo il motivo».

Cosa è accaduto durante l’adolescenza?
«Prima dei 10 anni mi identificavo con la figura di mia mamma, poi pensai di essere omosessuale. Così cominciai a frequentare un gruppo di gay, ma i miei genitori non approvavano. All’epoca al Sud gli omosessuali venivano insultati per strada, inseguiti, aggrediti. Dopo un po’ mi resi conto che in realtà ero attratta dagli uomini etero. La situazione era talmente pesante che per un breve periodo mi diedi all’alcol. Mi piaceva un ragazzo, ma la relazione non andò a buon fine e tentai il suicidio. Quando incontrai una vecchia conoscenza, che nel frattempo era diventata trans, capii che era ciò che volevo anch’io».

Quando ha deciso di venire a Milano?
«Volevo iniziare un percorso di transizione e nel ’94 sono partita per Milano con la consapevolezza che mi sarei prostituita, compromesso inevitabile per fare questo passo. Ho lavorato in strada per dieci anni».

Quindi non è venuta qui perché pensava di trovare un ambiente più tollerante…
«No, all’epoca l’unica opportunità che mi si offriva era la prostituzione. Quando vedevo i cartelli “cercasi commessa” provavo a propormi, ma mi vedevo chiudere le porte in faccia».

Com’è uscita dalla prostituzione?
«Ho conosciuto l’Arci trans. Così ho iniziato a correre verso la mia emancipazione, allontanandomi da quel mondo che mi aveva fatto così male. Ho cominciato a fare la volontaria presso Ala, associazione nata per combattere l’AIDS, con la quale ancora oggi collaboro andando in strada ad aiutare le prostitute trans. A causa della mancanza di medici a disposizione durante la pandemia, noi volontari siamo stati formati per effettuare test salivari per l’HIV».

Di cosa si occupa lo sportello trans?
«Nel 2009 ho chiesto ad Ala di aprire un punto di riferimento, di ascolto. E mi hanno affidato il ruolo di responsabile dello sportello. Volevo dare quell’aiuto che mi era mancato. Così mi sono creata una nuova professione: ho formato un’equipe con un endocrinologo, con un avvocato e con un collega che si occupa di inserimento lavorativo. Per le persone trans è difficile trovare un impiego, anche se le cose stanno un po’ cambiando. Si rivolgono a noi anche genitori di ragazzi giovanissimi».

Lei si è candidata alle scorse elezioni comunali. Cosa dovrebbe fare Milano per le persone trans?
«Bisognerebbe stipulare un accordo con ATM per adottare l’alias (il nuovo nome, ndr) sulle tessere degli abbonamenti, così come nelle palestre. Già alcuni atenei e licei, come il Brera, si stanno muovendo sul fronte delle carriere alias. E poi è necessario formare gli operatori socio-sanitari, le forze dell’ordine e il personale amministrativo per aiutarli a rapportarsi con le persone trans».

Articolo realizzato dalla Giornalista Katia Del Savio per Mi Tomorrow
Articolo realizzato anche cartaceo: Mi Tomorrow