Recensione di Barbara Mapelli che da molti anni si occupa di educazione, formazione e cultura, con particolare attenzione alle culture di genere. Su questi temi ha pubblicato volumi e contributi in testi collettivi. Già componente del Comitato pari opportunità del Ministero Pubblica Istruzione e consulente presso il Ministero Pari Opportunità, ha insegnato Pedagogia delle differenze di genere, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Milano Bicocca.

C’è ormai di tutto, proprio di tutto: romanzi, fiction, film, graphic novel, fumetti. Non ci si fa mancare nulla, la personaggia della (prevalentemente, ma non solo) donna trans è una presenza costante che interessa, seduce, attrae o respinge, ma in ogni caso interessa. Giustamente però Giuliana Misserville scrive che alla finzione non corrisponde la consapevolezza diffusa, per lo meno nel nostro Paese,

di quanto le figure transgender siano divenute una categoria (e potente) della contemporaneità, proprio per la ricchezza di significati connaturati con le ambivalenze e l’articolazione di vite così stratificate (…) è proprio per queste sue caratteristiche “sovversive”, che il concetto di trans diviene estremamente interessante e fecondo, nella realtà e sul piano letterario
(Leggendaria, n.132, Transcritture)

Questa sproporzione tra le proposte non solo letterarie dell’immaginazione creativa e la percezione del loro significato, vasto e profondo, sul mutamento culturale e sociale probabilmente rallenta ma non nega la realizzabilità di presenze diverse dal passato, di bisogni e desideri, tra un presente contraddittorio e un futuro che è già qui ma ancora appare poco visibile, il continuo scambio virtuoso tra il mondo in cui viviamo e quello in cui vorremmo vivere. Lo scambio – meglio se non confusivo – tra presente e futuro non solo rende più leggere le delusioni, le sconfitte che segnano ancora le biografie quotidiane, ma rendono possibile superarle, progettare di nuovo, e ancora, ancora.
Quindi se la vita delle persone trans, la vita che chiamiamo reale, è ancora difficile, aspra di momenti di sconforto e irta di ostacoli – come spesso anche le fiction raccontano – e la loro visibilità e accettazione è senz’altro più virtuale che concreta, va comunque bene se può trascinare con sé un futuro non troppo lontano.
In ogni caso la lettura di alcune narrazioni biografiche aiuta a comprendere i percorsi ancora accidentati, ma anche le conquiste, i passi avanti non solo in tema di diritto. Le narrazioni di finzione e quelle di vite vissute servono a creare nuove forme di un simbolico che si va strutturando, epiche nuove rispetto a quelle che finora ci sono state proposte e in cui siamo state e stati educati.

La storia di chi si racconta e rende pubblica la propria diversità rispetto alla norma diviene performativa ed esemplare anche per altre e altri poiché presenta una soggettività differente rispetto alla binarietà uomo-donna e può rimodellare le sensibilità di chi ascolta: non si presenta infatti attraverso una definizione astratta che può immediatamente essere assimilata a uno stereotipo e apparire inquietante – come ogni generalizzazione di diversità – ma come persona che ha una storia narrabile, con la quale si possono o non si possono trovare punti di contatto o similitudini di percorso, ma che comunque è identificabile in un’esperienza concreta, composta di tante parti che non è necessario condividere tutte, ma è possibile riconoscere. Una biografia vissuta e narrata nel suo divenire, accostata ad altre, anche del passato, avvia la creazione di una genealogia.

Leggo allora la biografia di Antonia Monopoli, una donna trans amica e una figura ormai di riferimento nella Milano contemporanea che è divenuta, ormai da tempo la sua città.

Antonia, allora Antonio, viene da lontano, da Bisceglie e da lì inizia la sua storia densa di tutte quelle problematicità e drammi quotidiani che le persone diverse hanno incontrato e incontrano ancora. Lo stupore e il dolore della famiglia per quel figlio così strano, lo scandalo e il rifiuto nella piccola comunità cittadina. La via crucis tra medici e psichiatri, con il consiglio, tra gli altri, di ricorrere a mezzi estremi – elettrochoc – che fortunatamente la madre inorridita rifiuta…

Finalmente, a diciotto anni mia madre smise a portarmi dai medici. Fu uno psicologo di Trani a porre fine a quella insensatezza. Dopo tre colloqui le disse che io non ero malato e che era lei ad avere bisogno di aiuto. Avrebbe dovuto accettarmi così come ero.

In seguito una prima fuga a Roma, poi a Milano e l’esperienza della prostituzione, mentre il suo aspetto sempre più diviene femminile. Il percorso di Antonia non le risparmia nulla, un lavoro normale le viene ogni volta negato e la vita da prostituta le è sempre più insopportabile ed è anche piena di rischi.

Così ero, un vaso di argilla pieno di grazie e di bellezza tanto resistente quanto fragile. Si racconta che in Giappone, quando un oggetto fragile si rompe, i cocci vengono ricongiunti con della resina, che fa da collante, mista a oro, argento o platino per indicare che, nei momenti difficili, una ferita non può scalfire la bellezza, ma dà forza a ogni crepa dandogli il valore di chi, vincitore o vinto, ha avuto comunque il coraggio di lottare.

Il percorso continua, con tutte le sue e altrui difficoltà, perché quando una persona attua il transito di genere coinvolge nel suo mutamento chi le sta intorno e il ricordo più netto e felice è per Antonia la prima volta che la madre riesce a pronunciare il suo nome al femminile.

Anche la mia famiglia aveva iniziato il processo di transizione dall’ignoranza dalla paura alla comprensione e all’accettazione.

A Milano negli anni successivi Antonia diviene attivista trans, una serie di passaggi da varie associazioni e, infine, Ala Onlus dove propone e realizza uno sportello trans. La consapevolezza che ormai la accompagna è che può nascere una visibilità trans meno contrastata e più forte rispetto al passato, ma occorre una comunità, un dialogo con chi vive la stessa condizione,

quando una persona rivela a un’altra persona di essere trans, abbatte il proprio muro interiore.

Perché, e Antonia lo spiega molto bene, esiste la transfobia interiorizzata dalle stesse persone trans, bisogna abbatterla dentro di sè

ed è difficile farlo perché ciò comporta ammazzare il proprio giudice interiore.

E’ questa la condizione per acquistare o riacquistare serenità. Antonia sembra esserlo, serena, ma a chi si può fare una domanda del genere? Certamente ha trovato luogo per sé ed è alla ricerca di vivibilità anche per le altre e gli altri come lei. A Milano, come dicevo, è una figura di riferimento – e non solo cittadina – per la comunità trans, con la sua attività di ascolto, aiuto, con la sua presenza nelle strade la notte per le donne trans che si prostituiscono e in carcere, a Como, dove ha seguito un progetto per le detenute trans. E, in più, la sua figura statuaria, il sorriso, i capelli lunghi e bellissimi, le immancabili scarpe rosse con il tacco e le lentiggini che tanto l’hanno tormentata quando era il bambino Antonio, sono divenute un riferimento anche visivo rassicurante e la si vede spesso, là dove è utile che sia ed è comunque bello incontrarla.

Il lieto finale dunque c’è e va raccontato, costruisce quell’epica nuova, quella narrabilità che ancora ci manca, a tutti e tutte, anche a quelli che sono come me, i normali (?) Ma di lieto fine non se ne ha mai abbastanza e desidero ancora ricordare la vicenda di Gianmarco, la vicenda dell’avvocato e sindaco Gianmarco Negri, di cui ho già scritto tempo fa su 27esima ora. E certo non solo io ho scritto di lui: Gianmarco, che ormai è una personalità nota non solo in Italia, il primo sindaco transgender, lui che ha vissuto molti anni della sua vita nel corpo di Maria e poi ha intrapreso il percorso verso Gianmarco che l’ha portato fin qui.

E uso per lui come per Antonia i nomi propri e non le definizioni uomo e donna perché so che ambedue non intendono rinnegare il loro passato e il loro percorso, il bambino e ragazzo, la bambina e ragazza che erano e che ancora vive in loro, nell’esperienza indimenticabile di un passaggio voluto, di cui non si vuole ricordare solo l’esito finale.

C’è un di più nelle loro vite e nelle vite di chi ha condiviso la stessa esperienza, sono persone speciali proprio perché hanno potuto, e voluto, vivere questo transito che alla maggior parte di noi non è dato. Colpisce in loro la disponibilità, l’attenzione agli altri e altre, il coraggio e allo stesso tempo l’umiltà – sì usiamo pure questa parola che definisce una virtù obsoleta – con cui continuano ad affrontare vite che appaiono felicemente risolte, ma ancora presentano contraddizioni, fatiche, scelte continue. I loro vissuti e saperi – e lo sto io stessa imparando poco per volta – sono valori e insegnamenti anche per chi ha storie diverse.

Fonte: La 27 ventisettesima ora – Corriere della Sera